Sembra che da quando esistono i forum, i social, le persone abbiano iniziato a tirare fuori la parte peggiore di sé. Sembra che il fatto di essere nascosti dietro un nick name e uno schermo dia quel coraggio e quella forza per aggredire verbalmente chiunque. Tanto il bersaglio non può reagire, se non con altre parole. Ma a quel punto l'aggressore risponderà con più forza, compiacendosi di aver colpito nel segno, cioè di aver suscitato una reazione, di aver "fatto colpo".
Ad esempio, in questi giorni, fra amiche e colleghe, si discute di alcune pagine che screditano l'allattamento e diffamano le consulenti per l'allattamento in vari modi.
Il tutto con una ferocia e un compiacimento che a qualcuno suscita rabbia, a qualcuno tristezza, a qualcuno fa scuotere il capo come a dire: "non ti curar di lor...".
Quando leggo queste esternazioni, che possono riguardare qualsiasi argomento - allattamento, vaccini, immigrati, disabili, personaggi famosi, ecologia... - la reazione spontanea è di rabbia, di desiderio di replicare punto per punto (a volte lo faccio), usare la ragione per cercare uno spiraglio in cui ci sia la possibilità di infilarsi per trovare un minimo di dialogo... cosa peraltro che fallisce sempre, perché lo scopo di queste persone non è cercare il confronto.
La seconda reazione è più ponderata e si basa sul pensiero che chi vomita così tanta rabbia abbia un motivo. Qualcosa ha creato in lui/lei una ferita così grande che tutto il pus che vi si è formato dentro deve essere buttato fuori in qualche modo. Aggredire serve a nascondere il dolore, a negarlo.
Se io non ho allattato e ne ho sofferto; se tutto, intorno a me, me lo ha fatto passare come un fallimento personale, devo proteggermi trasformando il mio dolore in rabbia verso chiunque mi decanti le "meraviglie dell'allattamento", devo dire a me stessa che non importa, che non è vero che allattare sia importante o faccia bene o chissà cosa altro. Altrimenti ne soffrirei troppo.
Se sono stata punita fisicamente o psicologicamente da bambina, dovrò sostenere con forza che non fa male, che i miei genitori mi amavano tantissimo, che erano perfetti, perché affermare che, pur amandomi, possono aver commesso degli errori, mi distruggerebbe l'immagine che ho di loro, mi farebbe mettere in dubbio il loro amore e farebbe tornare a galla il mio dolore di bambina. Inaccettabile.
E così via.
Per cui, se ne avrò l'occasione, diffonderò ovunque questo mio pensiero, oppure sarò aggressiva verso chi cerca di farmi ragionare, perché mettermi in discussione farebbe troppo male. Agisco in buona fede, inconsapevolmente, per proteggermi.
A volte c'è anche la cattiva fede.
A volte c'è il disprezzo per chi dedica la sua vita a cercare di costruire qualcosa di buono, perché l'anima di questi "odiatori seriali" sembra incapace di concepire che qualcuno possa agire in modo disinteressato. Oppure c'è il disprezzo perché aiutano, accolgono, frequentano persone giudicate inferiori, "sub-umane", potrei dire.
A volte c'è la volontà di evitare il confronto, c'è il desiderio di fare del male a chi ritengono colpevole del loro dolore (che ovviamente staranno negando) per una sorta di rivalsa, per sentirsi più forti schiacciando l'altro.
E godrann0 di ogni commento indignato che arriverà, si divertiranno a deridere, denigrare, ridicolizzare e sminuire chi cerca di portare prove, ragionamenti...
Io non sono psicologa e quello che dico l'ho imparato leggendo, studiando, approfondendo per fare meglio il mio lavoro e per la mia maternità. Ma il meccanismo di difesa che usa l'aggressività è abbastanza comune.
Per cui, ripensando all'ultimo di questi episodi di puro accanimento verso una categoria, verso una persona, verso evidenze scientifiche, mi viene da pensare a quanto dolore nascosto ed inespresso possa avere una persona che si comporta così, oppure a quanto abbia bisogno di ancorarsi alle sue certezze perché perderle potrebbe voler dire sentirsi smarrita e non saper più dove attaccarsi, dove sentirsi sicura.
Nella mia vita, seppur non tanto lunga ancora, ho spesso fatto il conto con "verità" che credevo assodate e che mi davano sicurezza e che, invece, si sono poi rivelate errate. Mi sono sentita un po' abbattuta, è vero. Un po' come se non contassi più nulla. Dire "cavolo, stavo sbagliando" a volte non è stato facile. Ma il riconoscerlo e fare un passo avanti nella conoscenza di un argomento o l'accettare di aver commesso un errore ho scoperto che, anziché farmi sentire sminuita agli occhi degli altri, ha fatto aumentare la stima. E mi ha fatto anche sentire più sicura. Perché capire di avere sbagliato, cambiare idea di fronte alle evidenze, non è segno di debolezza, ma di capacità di ragionare, di mettersi in discussione, di accettare le idee degli altri e discuterne. Di crescere.
Auguro a tutti gli "odiatori seriali" di poter fare questo cammino.